venerdì 22 gennaio 2016

CLERO E TV



Si pensa che la figura di Father Brown sia ispirata a Padre John O’Connor (1870–1952), il prete che seguì Chesterton, nato anglicano, nella sua conversione al cattolicesimo. Tra le armi principali di Father Brown, il senso comune e la capacità di vedere cose, spesso ovvie, davanti alle quali i poliziotti sembrano ciechi. Entrambi gli elementi che rientrano in una visione chestertoniana del mondo in cui il buon vecchio senso comune, la semplicità di pensiero e la capacità di andare al sodo sono doti in via d’estinzione, anche a causa della confusione mentale seminata dagli affabulatori-modernisti sovvertitori dell’ordine costituito.
Le storie di Father Brown, inizialmente pubblicate sulla stampa britannica a cavallo degli anni Dieci, sarebbero state raccolte in volumi soltanto più tardi, nonché adattate in sceneggiati radiofonici e successivamente televisivi dalla Bbc e Pbs. Ma, soprattutto, Father Brown ha dato il là a una lunga stagione di serie TV nell’europa continentale, dove, complice la Lux Vide e un’età media del pubblico non giovanissima, la parte del leone spetta all’Italia. Da Father Brown, insomma, è iniziato quel topos televisivo che oggi diamo quasi per scontato, quell’archetipo del prete-detective, che trova nella suora-investigatrice una timida imitazione, che ha regalato Padre Castell alla Germania e Suor Thérèse alla Francia.

In Italia, la stagione dei religiosi detective è iniziata alla fine degli anni Sessanta con la serie I ragazzi di padre Tobia. Pochi anni dopo, nel 1970, la Rai produce una suo sceneggiato ispirato al personaggio di Chesterton, intitolato I racconti di padre Brown. Negli anni Ottanta, anche Mediaset si appropria dell’archetipo, con Don Tonino, con Andrea Roncato, mandato in onda su Canale 5 tra il 1988 e il 1990 e ritrasmesso più di recente su Iris.

Negli anni Novanta, il genere clerico-poliziesco si consolida definitivamente con Un Prete Tra di Noi (Rai 2, 1997) e Dio Vede e Provvede (1996-1997), creatura Mediaset con un’Angela Finocchiaro in abito da monaca, presumibilmente concepita sull’onda lunga del successo planetario di Sister Act. Lo stesso schema è stato riproposto più di dieci anni dopo, nel 2011, dalla Rai, con Che Dio Ci Aiuti, altro poliziesco suoresco, ma con Elena Sofia Ricci.

Poi, naturalmente, c’è il fenomeno pluriennale di Don Matteo, che va in onda sulle reti Rai dal lontano 2000 con indiscusso successo di pubblico: una creatura di Lux Vide,  casa di produzione d’ispirazione cattolica fondata negli anni Novanta, nota anche per le fiction su Padre Pio e Papa Giovanni.

L’assedio di preti, suore e chef ha mantenuto le posizioni vitali proprio accanto il perimetro del nostro salotto con Don Matteo,  Che Dio ci aiuti e ascoltare una canzone di Suor Cristina.

Chissà che ne avrebbe detto Padre Mariano. Ne sono passati, di giubilei televisivi, dai tempi dell'umile cappuccino che, dalla tv in bianco e nero, rabboniva coi suoi semplici "pace e bene".

Da allora frati cantautori, preti detective e suore canterine scorazzano per l'etere, sollevando simpatie (e perplessità) in eguale, crescente, misura. C'è chi li loda e chi ne diffida. Per i primi sono paladini di una nuova forma di evangelizzazione. Per i secondi vittime di un esibizionismo - forse - inconsapevole. Talvolta inopportuno.
Nell'enciclica Evangelii Gaudium Papa Francesco ricorda che nessuno è esente dalle tentazioni del mondo in cui vive. Solo che noi siamo chiamati ad essere nel mondo, ma non del mondo. La difficoltà sta tutta qui.



Un sacerdote dice che  accetta di andare in tv solo perchè è un altro pulpito da cui testimoniare Dio. E farlo in prima serata, da un canale generalista, è un'occasione grande. Sperando di gettare dei semi che poi, forse, se Dio vorrà, germoglieranno.

Le sue intenzioni sono oneste. Ma non teme d'essere frainteso?
"Ho un Maestro che è stato frainteso. Cerco di essere prudente, in obbedienza ai miei superiori e scegliendo dove andare e dove no. Ma ho l'esempio di Gesù. Lui andava da chiunque. E certo lo criticavamo molto, per questo. In realtà nel novanta per cento di casi dico no, ma solo perché ho poco tempo".

Ha mai letto negli occhi del presentatore di turno l'intenzione di strumentalizzarla?
"Pongo una condizione: devo poter dire quello che penso. In fondo tutto dipende da come ti poni. Se rispetti gli altri finisci per fare amicizia perfino con chi la pensa in modo diametralmente opposto al tuo".

E il rischio della vanità? La tv ne produce per antonomasia.
"Ecco: questo sì che è un rischio. Sottovalutalo, e ci sei già dentro. Ma in questo momento a me, lo confesso, costa più andare in tv che starmene tranquillo a casa. La tv ti espone. Ti carica di responsabilità".

Che rapporto aveva lei con la tv, prima di diventarne un personaggio?
"Per dieci anni non l'ho neppure avuta. Mica per snobismo: è che nella comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante, dove vivo, l'abbiamo da poco. E ci vediamo solo tg e film. Così, da quando in tv ci vado, faccio gaffes clamorose chiedendo lei chi è? a persone strafamose. Ma questo mi ha favorito. Grazie alla mia ignoranza incontro la persona; non il personaggio".

E oggi che è popolare, essere riconosciuto per strada la imbarazza? È aumentata la gente che la segue?
"Sono aumentate le confessioni. E le benedizioni. E se qualcuno mi chiede un segno, gli regalo il segno della croce. Non un autografo".




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