lunedì 2 maggio 2016

L'OMERTA'



L'omertà è il silenzio su un delitto o sulle sue circostanze in modo da ostacolare la ricerca e la punizione del colpevole; sia per interessi pratici o di consorteria, oppure causata da paure e timori.

La teoria più accreditata sulla sua origine la identifica come variante dialettale del Meridione, in particolare napoletana, della parola umiltà (dal latino humilitas).

In Italia il termine si riferirebbe soprattutto alla consuetudine vigente nella malavita meridionale (cosa nostra e camorra), detta anche legge del silenzio, per cui si doveva mantenere il silenzio sul nome dell'autore di un delitto affinché questi non fosse colpito dalle leggi dello stato, ma soltanto dalla vendetta dell'offeso. Per questo motivo gli stessi sistemi mafiosi vengono spesso chiamati società dell'umiltà.

L’Omertà è una difesa potentissima, la trasgressione della quale mette, sia realmente (a volte) che fantasmaticamente, la vita del trasgressore in pericolo. In Giappone l’utilità della difesa è zoomorfizzata graficamente dalla raffigurazione della saggezza delle tre scimmiette, che non parlano, non sentono e non vedono.

In Italia la più nota delle possibili etimologie della parola omertà venne fornita negli anni Ottanta dell’Ottocento dal grande etnologo palermitano Giuseppe Pitré, e a sua volta si modellava su quella indicata già alla metà del decennio precedente dal magistrato Giuseppe Di Menza.
Il termine deriverebbe dalla radice omu (uomo), da cui l’astratto omineita-mortà rifletterebbe una concezione esasperata, tutta popolaresca e mediterranea, della virilità, per la quale ognuno è costretto a vendicare le offese da sé, senza mai far ricorso, pena il disonore, alla forza pubblica. In questo senso per Pitré omertà era il concetto chiave che stava linearmente a chiarire quello di mafia, di per sé ambiguo o oscuro, “quasi impossibile da definire” se non magari in negativo: la mafia, egli scrisse, “non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti, il mafioso non è ladro, né malandrino; la mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della propria forza individuale, donde le insofferenze della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui”.
Siamo alle origini di una costruzione intellettuale tendente a tutelare l’immagine della Sicilia offesa dalle (presunte) calunnie e incomprensioni dei continentali. Di quest’immagine negli anni a venire si sarebbero appropriati in particolare gli avvocati dei mafiosi, desiderosi di dimostrare che i loro assistiti si scontravano per loro privati odi “di famiglia”, (come i giapponesi del medioevo), che essi erano affetti da “ipertrofia dell’io”, che l’omertà rappresentava un semplice riflesso di tale ipertrofia, tipica dell’homo sicilianus.”
Se ciò che dice il Pitré è vero siamo di fronte a una diagnosi vera e propria che descrive uno dei caratteri specifici della paranoia, appunto l’ipertrofia dell’io, che sfocia nella megalomania. Quindi il comportamento omertoso è l’espressione di una difesa proiettiva. Viceversa già al tempo di Pitré era diffusa l’idea della mafia come organizzazione settaria, dall’etnologo – e da tanti altri – rifiutata sdegnosamente come invenzione dei questurini continentali. Significativamente negava, Pitré, la derivazione della parola omertà da umiltà attraverso la conversione della i in r, tipica del dialetto siciliano, etimologia indicata da molti, ad esempio da Giuseppe Alongi, criminologo e funzionario di polizia, non continentale ma siciliano (1886).
Umiltà era infatti termine usato nel primo Ottocento nelle organizzazioni delinquenziali (camorristiche) e in quelle massoniche e carbonare. Nelle organizzazioni massoniche ottocentesche, anche fuori della Sicilia, il delatore si diceva infame. In una delle prime testimonianze sul tema (1864), dovuta dal barone Nicolò Turrisi Colonna, senatore, eminente leader politico del tempo, ed egli stesso sospetto quale grande protettore di mafiosi, non troviamo ancora la parola mafia ma troviamo le parole setta, infamia, umiltà: “umiltà importa rispetto e devozione alle sette ed obbligo (di astenersi) da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati.
Chi è vissuto qualche tempo nelle campagne di Palermo, conosce come spesso si formino delle grandi riunioni della setta per discutere della condotta d’un tale affiliato.  L’assemblea, intesi tutti i componenti, decide”. Il termine umiltà-omertà ci porta dunque dentro l’organizzazione mafiosa.

L’omertà è molto diffusa nei casi di reati gravi, soprattutto se commessi dalla criminalità organizzata, come mafia, Sacra Corona Unita, camorra, ‘ndrangheta e, in passato, Anonima Sequestri. L’utilizzo del termine omertà nell’ambito giornalistico porta a volte alla colpevolizzazione di intere cittadinanze che di fatto risultano mortificate sia dalle azioni criminali, sia dall’accusa di complicità.
L’omertà può essere praticata anche da una comunità, più o meno estesa, governata da una autorità non riconosciuta. In questo caso i tentativi di autonomia ed indipendenza a carattere criminoso, come per esempio il terrorismo, possono essere coperti dall’intera comunità.


Nella subcultura mafiosa un “uomo di rispetto” è l’uomo omertoso, colui che ha fatto strada nel crimine, che ha il potere di farsi obbedire da un gran numero di altre persone, suoi affiliati. Questo concetto è stato trasferito in carcere, per cui si capisce benissimo che il rispetto è falso, perché scaturisce dalla paura e non dalla stima per qualcuno. Nel gruppo criminale il rispetto è ritenuto di fondamentale importanza, ma potrebbe anche essere giusto se rimanesse nell’ambito del gruppo in questione, visto dal loro punto di vista.  È senz’altro vero, d’altra parte, che una concezione così deterministica del rispetto ha consentito negli anni di “governare” una comunità altrimenti priva di regole, in cui la prevaricazione dell’uomo sull’uomo utilizzando la forza fisica avrebbe costituito la prassi. A tale riguardo (considerato che nelle carceri italiane la promiscuità sessuale è considerata un atto deplorevole e combattuta con tutti i mezzi), basta ricordare che è stato così alterato il concetto di “rispetto” a tal punto che fare la doccia nudi o girare in mutande in cella non è consentito. Anche se il termine ha perso il suo originale significato, è ancora molto importante quando si tratta di rispettare l’anzianità, non soltanto quando si riferisce a persone che hanno trascorso molti anni in carcere, ma anche quando l’anzianità è biologica.
Molte volte ci si trova nella condizione di “rispettare il cane per il padrone” (altra espressione linguistico-gergale tipicamente carceraria, diffusa anche nella società civile), ossia dare rispetto a persone che non lo meritano per il loro carattere prepotente o per il loro modo di agire irrispettosamente soltanto perché sono “amici” di qualcuno influente all’interno o all’esterno. È una situazione in cui si è nell’impossibilità di agire come si vorrebbe verso certe persone “protette”, ed allora queste si permettono di insultare o umiliare i più deboli, con la conseguenza di generare animosità e odio. È accaduto spesso che coloro i quali non avevano ancora “scaldato il letto”, cioè individui da poco in carcere, abbiano voluto dimostrare da subito la loro potenza nei confronti di altri già “vecchi di galera”, manifestando palesemente la loro presunta superiorità. Da norma consolidata, si dovrebbe avere rispetto di quelle persone già “anziane”, ma tale regola è stata spesso disattesa e quando il “padrone” veniva trasferito in altro carcere, il “cane” veniva severamente “bastonato” e indotto a un comportamento più consono.

L'omertà è una solidale intesa che vincola i membri della malavita alla protezione vicendevole, tacendo o mascherando ogni indizio o prova utile per l’individuazione dei colpevoli. Spesso  si è omertosi per paura, solidarietà, difesa di interessi personali, ecc. Nella cultura meridionale è un valore fondamentale perché implica la sottomissione alle regole delle varie organizzazioni mafiose. Come il rispetto, l’omertà è un elemento essenziale, senza il quale non avrebbero senso molte delle regole.
Oltre ai due valori principali esistono, come nella società libera, anche altri valori soggettivi, che dipendono soprattutto dalla cultura di provenienza di ogni singolo detenuto: solidarietà, amicizia, libertà, uguaglianza, dignità della persona, famiglia, giustizia e altri. Più che in passato, quando era meno differenziata al suo interno, anche la comunità carceraria è caratterizzata dal pluralismo dei valori. Tali valori possono essere in conflitto tra di loro e l’individuo si trova sovente in situazioni di dilemma etico. Ad esempio, succede che il valori della solidarietà verso i più deboli e della libertà entrino in conflitto con quello dell’omertà. Sono infinite le situazioni in cui i detenuti sono costretti a scegliere tra valori ai quali danno comunque molta importanza.



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